Ciò che sta accadendo negli ultimi giorni ci porta a riflettere su ciò che è essenziale, e in particole su due fattori primari e indispensabili per la nostra sopravvivenza: la salute e l’approvvigionamento alimentare. Se per il primo evito di contribuire alla bulimia informativa in corso, per il secondo ci sono diverse riflessioni che mi sembra interessante mettere sul tavolo della discussione.
Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, molti cittadini, non solo italiani, hanno provato nuovamente paura: la paura dell’incertezza e del non poter avere accesso al cibo liberamente. L’assalto ai supermercati e la corsa alle scorte alimentari a cui abbiamo assistito ne sono chiara testimonianza.
Il sistema alimentare fortemente globalizzato a cui ci siamo abituati, si mostra quindi nella sua complessità e, in questo caso, ci dà la possibilità di vederne pro e contro in maniera chiara, facendoci apprezzare i lati positivi e osservarne limiti e problematiche.
A partire dall’allarme rosso in agricoltura, scatenato dalla mancanza di braccianti stranieri, impossibilitati nel venire in Italia perché bloccati dalle chiusure delle frontiere e dalla mobilità ridotta: in un momento in cui la domanda è, tra l’altro, in forte crescita, la raccolta di frutta e verdura è in seria difficoltà. Ma la fase a valle della filiera non è l’unica a risentire dell’emergenza sanitaria vigente, e una riflessione va fatta anche per ciò che riguarda il sistema distributivo.
Se è vero che in questi giorni, per molti di noi che vivono in città, la grande distribuzione organizzata rappresenta la garante per la sicurezza alimentare, è altresì importante notare che il supermercato e lo shopping online – figli prediletti del sistema di consumo attuale – offrono un servizio tanto necessario quanto impersonale e non sempre accessibile a tutti ovunque. Questo è ad esempio il caso di quegli anziani che vivono in piccoli borghi e nelle periferie, lontane dall’universo delle città e dei paesi più grandi, impossibilitati negli spostamenti in macchina. Quei luoghi dove la grande distribuzione non è arrivata e dove invece vivono (e regalano vita) le botteghe artigiane, quelle che secondo uno studio della Cgia, negli ultimi dieci anni in Italia sono diminuite del 12,1% (una perdita di circa 200 mila negozi di vicinato, non solo alimentari).
Le botteghe, difatti, hanno un elemento distintivo che in situazioni come quella odierna (e non solo) potrebbero davvero fare la differenza: la loro funzione non è solo di mero servizio distributivo, bensì di relazione; veri e propri presìdi di fiducia del territorio e del tessuto sociale, rappresentano un’ancora di salvezza per molti paesi che così si sentono meno isolati.
Se in questi giorni in alcuni luoghi non ci fossero state le botteghe (che in questo periodo, per rispettare le direttive, si sono talvolta organizzate con servizi a domicilio), molte persone non avrebbero saputo come approvvigionarsi e a chi rivolgersi. Ma l’equazione è semplice: le botteghe resistono laddove ci sono persone che le animano. Se i borghi si spopolano e i giovani vanno via, le saracinesche chiudono, e gli anziani – a meno che non intervengano forme di volontariato o amministrazioni locali – sono costretti a trasferirsi. È un circolo vizioso da cui dover uscire, poiché i borghi senza botteghe muoiono, e viceversa.
Approfittiamo di questi giorni per immaginare un dopo dove, una volta capito cos’è davvero necessario, possano convivere varie realtà, dalle botteghe ai supermercati, diversificate e su misura in base alle necessità di ogni luogo.
E allora, quando usciremo da questo tunnel – perché ne usciremo – per far si che vada davvero tutto bene, facciamo tesoro di ciò che abbiamo sofferto per ripensare a un modello alimentare diverso.
Un modello che non si basi più sul semplice consumo, ma che trovi soluzioni alternative che valorizzino da un lato i beni comuni e chi li custodisce (suolo e contadini in primis), e dall’altro i beni di relazione. In questo, le botteghe di prossimità, giovani e multifunzionali, potrebbero davvero avere un ruolo determinante, e queste pagine tristi rappresentare l’occasione per quel nuovo inizio a cui tutti stavamo anelando.
Carlo Petrini
Da La Stampa del 15 marzo 2020