Max Manfredi è un uomo complicato. Probabilmente un genio. Che si porta dietro una maledizione: di quando Fabrizio de André – praticamente Gesù Cristo redivivo – disse che lui e solo lui – cioè Max medesimo – poteva ambire ad essere il suo erede. Fecero anche una canzone insieme, se ben ricordo. Una ballata su Genova.
Ora Max torna con un disco appena pubblicato che s’intitola “Il grido della fata”. Che, nella sua discografia, si colloca al fianco di capolavori massimi come “L’intagliatore di santi” del 2001 e “Luna persa” del 2008. Appena sopra “Dremong”, del 2014, lavoro magniloquente che pure contiene gioielli straordinari come “Le castagne matte”, uno dei vertici del suo canzoniere.
“Il grido della fata” è dunque un capolavoro. Del resto quasi tutta la produzione di questo autore è fatta di capolavori. Scritti e pensati con amore, cesellati con il tempo che ci vuole, e poi abbandonati al mare magnum di un mercato che nessuno sa più governare. E che sovente non si accorge di loro.
Non farò l’esegesi del disco. E’ troppo complicato. Perché Max Manfredi è un uomo complicato, dicevamo. Proverò semplicemente a vedere che cosa ci ho capito. Dato che mi è piaciuto assai.
In ogni caso, la raccolta si apre con “Scimmia grigia”. Una ballata elettrica, con suoni acidi e grotteschi, una canzone dolente e coraggiosa: “La scimmia grigia mi compare sulla spalla / l’attimo prima ch’io mi renda conto / che era già un po’ che ce l’avevo sulla spalla / ma che a vederla non ero pronto”.
Segue “Sala da concerto”, un pezzo con atmosfere elettroniche miscelate ad un pianoforte quasi intimidito dal pezzo stesso e dal theremin (non sappiamo se reale o sintetico) e da una seconda parte – cioè una lunga coda strumentale – tra canto gregoriano (al femminile e probabilmente sintetico) e un’intimidita batteria jazz e ancora il theremin.
“Nostra Signora della Neve” è un tempo medio, ancora elettronico (ma questa, quella dell’elettronica, è la cifra sonora di quasi tutto il disco). Il testo va letto e interpretato. Max Manfredi ci sfida, quasi a smentire, ogni volta, la profezia di De André. Perché De André si faceva capire. E Max no.
Quasi una ninna nanna è “Malvina”. Bella e orecchiabile, come si diceva una volta, ma ancora una volta di difficile interpretazione. Sappiamo che Malvina suona l’arpa e beve calvados. La canzone è piena di immagini e suggestioni. Ma chi vuole anche capire, e non si accontenta delle immagini, resta a bocca asciutta. E ci riprova.
Prescindibile “Nasi goreng”, e totalmente incomprensibile nonostante tratti di un piatto indonesiano e tenti di rievocare le atmosfere di quel paese dal punto di vista musicale.
Il cambio di passo di avverte con “Polleria”, canzone bellissima, fatta di pochissimi accordi che ci restituisce, tuttavia, il Manfredi narratore e le sue invenzioni poetiche: “La neve in cielo che frulla via / come biglietti della lotteria”. In coda, ancora una volta, un mistico coro che si somma alle chitarre elettriche.
“Il guastamori” – scritta insieme a Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci – è un delirante viaggio, probabilmente rivierasco, che tenta di disegnare una figura mai raccontata (forse tranne che da Vasco in “Colpa d’Alfredo”). Tuttavia, i versi: “E credo che anche Lazzaro / tornato dal suo jet-lag tombale / preferiva sorridere / piuttosto che parlare” credo valgano il disco.
“Rosso rubino” è una canzone etilica, ricca di immagini e storie giustapposte, in puro stile Max Manfredi. La musica pesca dall’operismo, dalle colonne sonore e a tratti pure dai Muse o, in subordine, dalla dimenticata Electric Light Orchestra.
Il tiro si alza ancora con “Apis”, titolo enigmatico che non sappiamo se riferito all’insetto catalogato da Linnaeus, oppure all’agenzia per il lavoro interinale che dall’insetto prende evidentemente il nome. La canzone, tuttavia, è grandiosa. Max Manfredi ancora una volta racconta. Probabilmente Genova, un postribolo e se stesso: “Ma ho incassato le fasi di Saturno / e i tempi del Tempo delle Mele”.
Il cuore sbilanciato del disco è tuttavia “Elicriso”, che arriva troppo tardi. Una ballata acustica che Max Manfredi aveva diffuso nei giorni bui del primo lockdown. La canzone è bellissima, una delle cose più belle scritte dall’autore. Una canzone semplice, dedicata ad una pianta spontanea che diventa, nel pezzo, simbolo di memoria e amore. E disincanto.
Ma forse la canzone più potente del disco deve ancora arrivare. E si chiama “Canzone del finale”, ancora una volta un racconto, ispiratissimo, pieno di invenzioni tipiche di Max Manfredi. Un film. Un pezzo di teatro da mettere in scena sul palcoscenico della nostra immaginazione. “Io che mi ero anche portato / lo spazzolino e il dentifricio. / Ma adesso è arrivata l’ora / dei fuochi d’artificio”.
L’enigma del disco non si risolve, tuttavia, neppure nell’ultima canzone eponima. Non sappiamo chi sia la fata: forse una libellula che ci guarda da un torrente, forse l’assenzio che tanta parte ha avuto nella costruzione della poesia dell’Ottocento.
Max Manfredi ha licenziato, dunque, uno dei suoi dischi più belli e difficili. Non all’ascolto, che procede con facilità data la felicità melodica che contraddistingue l’artista, ma nella decrittazione dei contenuti. Che richiedono uno sforzo ulteriore. Che, tuttavia, crediamo non vano.
Ferdinando Molteni
La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=LcapSfC2EY0