La musica sincopata secondo Freddy Colt. Il disco “Time pavillion” è pura gioia

Non sono sicuro che quello che racconta Freddy Colt nei suoi dischi sia qualcosa di reale oppure un sogno. Sognato o mancato.

Sto centellinando la sua ultima opera – accreditata a Freddy Colt and his Swing Kids – e mi accorgo di sognare una specie di mondo dove tutti si divertono, le donne sono bellissime e sexy e gli uomini sono eleganti e gentili. Una mondo ideale che sembra racchiudersi in un merviglioso “Time pavillion”– questo il titolo del disco appena licenziato – dove tutti, a bocca aperta e ad occhi chiusi, immaginiamo un mondo fatato ascoltando musiche di bellezza straordinaria.

Freddy Colt, con “Time pavillion”, recupera e restaura un repertorio fantastico di ritmi sincopati e latini. Fa un’operazione culturale di prim’ordine che pure genera un’opera d’arte musicale tra le più belle di questi ultimi tempi.

La compagine musicale è di altissimo livello. Musicisti in prevalenza giovani, appassionati del jazz italiano.

La scaletta è un viaggio nel passato e in una dimensione ulteriore: “Dischi volanti” arrangiata da Giacomazzi nel 1950, la classica “Vecchia America” di Lelio Luttazzi cantata da una brava Serena Suraci, la straziante “Una tromba piange”, ancora di Luttazzi e datata 1952. Poi tocca a “Sera” di Pippo Barzizza – autentico punto di riferimento per Freddy Colt – e ancora “Che musetto!” di Enzo Ceragioli, “Per sola orchestra” di Nicodemo Bruzzone, musicista sanremasco e maestro di Freddy Colt, cui quest’ìultimo ha dedicato energie, concerti, ricerche e un importante album musicale.

Torma poi Pippo Barzizza con il suo “Blues della solitudine” e, ancora, “More” di Riz Ortolani, pezzo nato per la colonna sonora del film “Mondo cane” del 1962 e portato ad un certo successo, in anni recenti, da una versione elettropop di Amanda Lear.

L’unica canzone non italiana della raccolta è, per una scelta ironica tipica di Freddy Colt, “Mambo italiano” di Bob Merrill del 1954, resa in una vibrante versione ancora da Serena Suci.

Il viaggio sta per giungere al termine, ma ecco arrivare un imprevedibile e delicato “Bongusto’s medley” (“Frida”, “Amore fermati”, “Una rotonda sul mare”) con il flicorno di Felice Reggio a deliziare l’ascoltatore.

Pre-finale con “Legata ad uno scoglio” di Luttazzi-Chiosso e finale vero con un “Ferrio’s medley” che comprende – di Gianni Ferrio: “Piccolissima serenata”, “Non gioco più” e “Parole parole”.

Il disco di Freddy Colt and his Swing Kids ha il potere di produrre allegria e felicità.

Ferdinando Molteni

L’album si può acquistare sul sito: www.mellophonium.it/multimedia

Addio ad Alberto Radius

Non so se Alberto Radius sia stato il più grande chitarrista rock italiano. Ma è quello che mi è sempre piaciuto di più. Ed è quello che – alla prima nota – lo si riconosceva.
La sua carriera la stanno ricostruendo in tanti in queste ore. Ma per definire l’artista bastano – si fa per dire – pochi episodi.
La collaborazione con Lucio Battisti e la nascita della Formula 3, il primo (e unico) power trio italiano e i suoi rari dischi da solo.
Basterebbe questo a farne una leggenda.
Ma Radius era qualcosa di più. Era un chitarrista inarrivabile, geniale ma molto spesso istintivo. Come deve essere un vero e grande chitarrista. Ed era anche un cantante notevole, capace di raccontare i tardi anni Settanta come pochi.

«Io non ho un partito / non mi basta il sindacato / un lavoro non me l’hanno mai trovato. / La riconversione / non mi sembra una ragione / per confondere / lo schiavo col padrone».

Forse, per riconsiderare il suo talento, e degnamente ricordarlo, potremmo ripartire da “Nel ghetto” del 1977. Una specie di inno o di manifesto. Sicuramente una delle cose più belle che ci ha lasciato.

Ferdinando Molteni

L’addio di Mimmo Locasciulli alle canzoni non è (forse) un playback

«Confesso che a volte ho la strana sensazione di scrivere e cantare per una sparuta platea di reduci. Non tanto in termini numerici, ma in termini di attenzione, di comprensione e di condivisione emotiva».

È questo il passaggio saliente di una lettera che Mimmo Locasciulli ha affidato ai social. Una lunga e dolente lettera nella quale il cantautore abruzzese, ma romano d’adozione, ammette una sorta di resa di fronte ad un mondo musicale che non riconosce più.

Mimmo Locasciulli ha più di settant’anni, ma non dice di sentirsi vecchio. Del resto nel 1982, nella bellissima “Intorno a trentanni” già recitava – compiaciuto – la parte del reduce.

La lettera si apre così: «Ci ho riflettuto a lungo, per non correre il rischio di ripensamenti. Ho ascoltato e riascoltato programmi radiofonici e televisivi, ho sviscerato le piattaforme di streaming e download, ho letto le recensioni sulle riviste specializzate, sui quotidiani, sui siti web che in qualche modo si occupano di musica. Volevo capire qual è oggi lo spazio concesso al mio linguaggio musicale, quali le condizioni per conservare una minima visibilità, quale il costo in termini di spesa di me stesso per reggere un confronto con un meccanismo così assordante, così omologante».

Locasciulli, che debutta nel 1975 con l’album “Non rimanere là”, sfiorerà il successo con la citata “Intorno a trentanni” e, ancora, nel 1987 con la geniale e struggente “Confusi in un playback” cantata insieme a Enrico Ruggeri, Locasciulli che ha raccolto un canzoniere di prim’ordine, fatto di gioielli talora nascosti, ma sempre onesti e pieni di talento, arriva a dire: «Ho scritto molte canzoni e ognuna di esse, anche la più leggera, è nata da un toc toc interiore che inevitabilmente, poi, mi ha messo a nudo con me stesso. A volte hanno prodotto gioia e calore, altre volte smarrimento e dolore. Sono le mie confessioni, le mie bugie, i miei sogni, le mie speranze, le mie vittorie, i miei rimpianti…».

Infine, il colpo al cuore: «Dopo tanti anni di dischi e di concerti non sento più l’appartenenza a questo modello di universo musicale. Confesso di non comprendere le nuove tendenze, forse sono troppo legato alla bellezza di un testo, alla commozione che una melodia può produrre, al trasporto che una voce può evocare».

E, ancora: «Insomma, questo mondo non mi piace, non mi appartiene. Mi sento fuori contesto e lo sono».

Dice che continuerà a scrivere, Locasciulli, perché probabilmente non ne può fare a meno, ma le sue riflessioni ci interrogano. La pop-music attuale è davvero il deserto dell’anima? Siamo circondati dalla spazzatura? E poi, davvero non c’è più spazio per la piccola grandiosa arte della canzone d’autore?

Ciascuno di noi potrà tentare la risposta.

Per quanto mi riguarda rimetto sul piatto “Confusi in un playback” e ascolto. Ascolto quella originale con Ruggeri, ma ce n’è una – bellissima – cantata con Ligabue. Con un video straordinario dove Mimmo canta in playback anche la parte di Luciano, mentre lui lo osserva da lontano.

«Il cuore batte alla rinfusa, che serietà,
nella fretta di portare pantaloni lunghi e personalità
mentre è il fascino di qualche ripetente
che ci scombussola le idee
e il futuro sembra lì ma non arriva mai».

Difficile pensare ad un futuro senza canzoni come queste.

«E arrivano i discorsi, però le conclusioni quasi più,
e ci iscrivono ai concorsi, di tanto in tanto ci tiriamo su.
E le tensioni oh, le scaraventiamo su canzoni
che fingiamo di cantare confusi in un playback».

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=ZVk6-5hiKi0

Emanuele Dabbono ha “Fame”. Il nuovo singolo e il video raccontano l’artista

Mi rendo conto di non essere del tutto obiettivo, quando parlo di Emanuele Dabbono. Ho ascoltato migliaia di canzoni nella mia vita. E spero di continuare a farlo. Cerco di non dare giudizi definitivi. Soprattutto affrettati. L’album di Emanuele – “Buona strada” – l’ho ascoltato il giorno della sua uscita. E poi molte altre volte. E ho scritto, quando è uscito il video, qualche riga sulla bellissima e struggente canzone “Cerezo”.

“Buona strada” è una raccolta di pezzi che chiunque vorrebbe aver scritto e cantato. C’è dentro il talento, l’attitudine pop ma anche rock (che Dabbono non ha mai perduto), la ricerca della poesia nei testi, ma c’è soprattutto la gioia di fare musica, di condividerla e la speranza che quella musica arrivi alle persone.

Emanuele non ha bisogno del successo. Perché ce lo ha già. Non è quello delle star della televisione, sempre in prima serata, ma è quello di un autore di canzoni tra i più ricercati e apprezzati in Italia.

Tiziano Ferro, per dire, gli deve non poco. E non a caso ha prodotto l’album in oggetto. Un album che, volutamente, non ho raccontato. Mi sembrava di tradire la delicatezza di “Cerezo” di cui avevo già scritto, la canzone dove c’è dentro tutto Dabbono, la sua giovinezza, i suoi entusiasmi, le sue passioni, ma anche il dolore e la fragilità.

Ho grande rispetto per gli artisti onesti. Quelli veri, che non ti fregano e che provano a raccontare le cose come stanno. Soprattutto della loro vita.

Il candore di Emanuele Dabbono mi ricorda quello di Roberto Vecchioni o di Georges Brassens o, ancora, di Piero Ciampi. La verità è di per sé poesia. Anche se i temi sono diversi. La mistificazione è una sconfitta e il pubblico, prima o poi, se ne accorge.

In ogni caso, Dabbono ha estratto dal suo album un secondo singolo. Si chiama “Fame”. Ed è una canzone che parla dell’istinto di divorare quello che desideriamo: le «gambe nude di giugno» della propria donna, ma anche la fame di musica: «di negozi di dischi / dei primi di Springsteen». E poi ancora ricordi di viaggio («dal Grand Canyon a Rejkiavik»), citazioni di film, immagini erotiche, fotografie, il pianoforte di Bill Evans, Jack London, dipinti e biciclette.

Tutto quello di cui un uomo può aver fame. E di cui un uomo può vivere.

Il video della canzone è semplice. Sembra uscito a una MTV dei medi anni Ottanta. L’artista si confonde con la band. Fatta da amici. Belli e felici di far casino insieme a lui. Li ho riconosciuti quasi tutti. E so che sono veri amici di Dabbono, oltre che grandi musicisti.

Il video lo ha girato sotto casa, in un locale dove mi capita di passare ogni tanto.

Dimenticavo: la canzone è bellissima, comunica gioia e meraviglia.

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=F6A11HAzC0E

Janis Joplin: oggi sarebbero ottanta

Stava registrando il suo nuovo album. Entrò il sala, si avvicinò ad un microfono e cominciò a cantare: «Oh Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz?». Così, a-cappella, senza accompagnamento musicale. Era una sorta di paradossale e irriverente preghiera rivolta al Signore, per avere una Mercedes, perché gli altri avevano la Porsche. Era una richiesta di giustizia ed equità, in definitiva. Ed era il 1970, quando cose così potevano accadere.

Janis Joplin da Port Arthur, Texas, oggi avrebbe ottant’anni. Sarebbe una donna anziana, una vecchia cantante probabilmente incapace di intonare ancora le sue meravigliose canzoni come faceva mezzo secolo prima. Invece Janis Joplin è rimasta quella di allora. Una ragazza né bella né brutta, con una sensualità selvatica e prorompente e una voce inarrivabile. Una delle più belle di tutti i tempi.

Molti hanno scritto che Janis aveva una voce “nera”, quasi fosse una imitatrice delle cantanti blues. Ma non è vero. Janis aveva una voce unica e “aveva” il blues. Era una bianca che aveva capito, condiviso e attraversato la sofferenza. E tutto finiva nella sua voce. E nel blues.

Ha pubblicato poco, prima di morire a 27 anni. Tre album da viva e uno postumo, il capolavoro “Pearl” che contiene la citata “Mercedes Benz”. Dischi che tuttavia hanno lasciato il segno: il primo, intitolato al gruppo, con Big Brother and the Holding Company e, sempre con la stessa band, l’iconico (la copertina è del grande fumettista  Robert Crumb) “Cheap Thrills”.

Da solista ci restano un album del 1969 – “I got dem ol’ kozmic blues again mama!” – e lo straordinario, ancorché postumo, “Pearl”.

Bisessuale, quando non era facilissimo esserlo e dichiararlo, ebbe tante fuggevoli storie d’amore. Con Peggy Caserta, una spacciatrice nel mondo del rock, e poi gente come Kris Kristofferson, Country Joe McDonald, Leonard Cohen, Jimi Hendrix.

Pare fosse irresistibile. E ascoltando la sua voce non è difficile crederlo.

Ferdinando Molteni

Il primo De André in una raccolta alla portata di tutte le tasche

C’è stato un tempo in cui De André si chiamava semplicemente Fabrizio. I suoi primi 45 giri, pubblicati dalla Karim, così lo citavano sulle copertine. Molto ci sarebbe da dire sulla ritrosia di Faber ad utilizzare tutto il suo nome. Ma le cose andarono così.

A partire dal 1961 pubblicò una serie di singoli che avrebbero contribuito a gettare le basi della sua futura carriera. Da qualche giorno, in edicola, si può trovare, insieme ad un fascicolo ricco di informazioni e storie su De André, anche un cd che contiene i primi quattro singoli pubblicati dall’artista.

Gli amanti di Faber li conoscono a memoria, ma a riascoltarli, ogni volta si impara qualcosa.

In “Nuvole barocche” il giovane De André denuncia la sua ispirazione, Umberto Bindi e, a tratti, Tenco. Così come nel retro intitolato “E fu la notte”.

Brassens affiora nella “Ballata del Michè” e nella “Ballata dell’eroe”, che sarà cantata anche da Tenco nel film “La cuccagna”.

Poi ancora il 45 giri per eccellenza del primo periodo di Fabrizio, quello che contiene, nella prima facciata “Il fannullone” e nel retro “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers”. Due canzoni straordinarie e nuove dovute alla penna di Paolo Villaggio, oltre che a quella di De André.

Il cd in edicola propone, infine, un altro cupo 45 giri: “Il testamento” sul primo lato e una ripresa de “La ballata del Miché” sul secondo.

È il 1963 e il talento di De André comincerà a trovare la propria strada qualche anno dopo. Il primo album arriverà solo nella primavera del 1967. E poi sarà una lunga e bellissima storia.

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=mD0RQbj2z-Y

Bob Dylan racconta Domenico Modugno. Ed è subito meraviglia

Bob Dylan, cantautore sommo e premio Nobel per la letteratura, ha scritto centinaia di canzoni e anche qualche libro. Mi viene in mente “Tarantula”, che confesso di non aver mai letto, e poi l’autobiografico e bellissimo “Chronicles. Volume 1” del 2004 (del quale stiamo aspettando il 2 e il 3) e, ancora, nelle librerie da pochi giorni, il sontuoso “Filosofia della canzone moderna”, in Italia edito da Feltrinelli.

Il libro è magnifico. Un viaggio nella canzone come forma d’arte autonoma e compiuta, ricco di immagini, ricordi personali dell’autore, curiosità. Leggerlo, capitolo per capitolo, ascoltando (o riascoltando) le canzoni proposte, è un’avventura culturale e spirituale.

Tra la settantina di canzoni raccontate c’è anche “Volare (Nel blu dipinto di blu)” di Domenico Modugno e Franco Migliacci. La canzone che, nel 1958, cambiò la storia della musica pop italiana ed anche, dopo l’esibizione al Festival di Sanremo, il modo di porsi dell’artista davanti al pubblico.

Dylan racconta il pezzo quasi fosse un viaggio psichedelico: «Questa è una canzone che si avvicina, sfreccia, continua per la sua strada, procede a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e sta sospesa a mezz’aria»

Per Dylan la canzone non è altri che Utopia, un luogo ideale ma necessariamente immaginario, un dipinto ad olio, una mutazione genetica dell’uomo.

La prosa del cantante di Duluth, Minnesota, è formidabile. A tratti ricorda Greil Marcus, ma Greil Marcus è più ragionevole e concreto. Dylan, in fin dei conti, scrive da poeta. E aggiunge, su “Volare”: «Magari questa è stata una delle prime canzoni allucinogene, di almeno dieci anni in anticipo su “White rabbit” dei Jefferson Airplane».

L’omaggio di Dylan a Modugno, nelle pagine a lui dedicate nel libro, è meraviglioso. La canzone, negli Stati Uniti, era stata interpretata anche, e con grande successo, dall’italo-americano Bobby Rydell. Tuttavia, scrive Dylan: «In origine, “Volare” era eseguita da un cantante italiano di nome Domenico Modugno, e già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. Una canzone che vi può sorprendere in ogni momento, giorno e notte. È sempre la stessa. State sempre volando più in alto del sole».

Le pagine dedicate da Dylan a Modugno valgono l’acquisto del libro. Senza dimenticare che poi c’è tutto il resto.

 

Ferdinando Molteni

 

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=nD8BryVB9d0

Apologia di Gianni Togni

Apologia di Gianni Togni

Poteva diventare Baglioni. E anche di più. Non dico Battisti, ma qualcosa come Venditti. Comunque un grande. Invece è successo qualcosa. Ed rimasto Gianni Togni. Un artista amatissimo.

Ma da pochi.

Troppo pochi.

Come io che ne scrivo.

L’artista romano è uscito, qualche settimana fa, con un suo album dal vivo. Che s’intitola guarda caso: “Live”.

Ed è bellissimo.

Dentro ci sono tutte le sue grandi canzoni. Eseguite come si deve. Con qualche chitarra elettrica in più. E ci sono gli applausi del pubblico che lo ama da più di quarant’anni.

Ci sono, nel disco, le sue cose migliori. Diciassette tracce, antiche e recenti. Un canzoniere di prim’ordine, straordinario, pieno di idee musicali. Che conferma il mistero della sua fama così circoscritta.

Il mistero riguarda pezzi come “Vivi”, qui reso come un rock di altri tempi, il capolavoro “Per noi innamorati” giocato su un semplice tessuto di piano elettrico, oppure il trittico – messo apposta in sequenza nel disco – “Luna”, la canzone pop perfetta, e poi “Semplice” e “Giulia”, l’altra canzone pop perfetta.

Un cantante “normale” con un paio di quelle perle avrebbe costruito la propria imperitura fama.

A Gianni Togni non è riuscito.

Ma noi, che non siamo come gli altri – come direbbe lui – amiamo le sue canzoni e le ascoltiamo e riascoltiamo.

Viva Gianni Togni. Sempre!

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=sR05emcWMl8

Cinquant’anni fa “Radici” di Guccini, capolavoro senza tempo

Mezzo secolo può non essere molto in assoluto, ma per un disco di musica popolare è tantissimo. E resistere per cinque decenni alle mode – del pubblico e della critica – ai revival, al punk, alla dance, al pop elettronico fino ad arrivare al rap e alla trap, è davvero un’impresa straordinaria.

Non sono sicuro che Francesco Guccini, all’epoca trentaduenne, avrebbe scommesso su tanta longevità. Del suo disco, e più in generale del suoo lavoro di autore e cantante.

Invece è successo.

“Radici” forse il suo album più significativo insieme a “Via Paolo Fabbri 43” – è ancora qui. Nei pochi negozi di dischi che sopravvivono ma anche, e soprattutto, sulle piattaforme digitali.

Dentro ci sono una manciata di canzoni: “Radici”, “La locomotiva”, “Piccola città”, “Incontro”, “Canzone dei dodici mesi”, “Canzone della bambina portoghese”, “Il vecchio e il bambino”.

Sette pezzi. Sette capolavori. L’artista in stato di grazia.

Certo, ascoltato oggi il disco un po’ di polvere del tempo la mostra. Ma solo sui suoni, sempre pervicacemente trascurati da Guccini, nonostante la presenza di musicisti e amici come Vince Tempera, Maurizio Vandelli, Ares Tavolazzi.

Tuttavia, nonostante suoni ormai tramontati e approssimativi, la bellezza cristallina delle composizioni resta intatta.

Cinquant’anni fa Guccini scriveva un monumento. E noi siamo ancora qui ad ascoltarlo.

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=BjXjgyYU9eU

Giangilberto Monti, la canzone francese e un viaggio incredibile nel Novecento

C’è stato un tempo in cui la canzone italiana e quella francese erano in costante dialogo. Influenze, traduzioni, successi, popolarità degli artisti. Da un po’ non accade più.

Ma Giangilberto Monti, storico cantautore milanese, celebra quella stagione con un disco dal vivo appena uscito. S’intitola “Françalien. Gli anni d’oro della canzone francese” ed è un album collegato al libro scritto per Gremese dallo stesso Monti insieme a Vito Vita.

La raccolta comprende alcuni classici e alcune curiosità.

Si apre con “L’istrione” – canzone bellissima di Charles Aznavour – uscita in Francia come “Le cabotin”. Seguita da un’imprevedibile “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano nella versione francese portata al successo da Francois Hardy (“La maison où j’ai grandi”) nello stesso anno di uscita dell’originale, il 1966.

Il disco di Monti è bello, sentito e arrangiato in mondo straordinario. Si capisce che il repertorio è stato scelto per il palcoscenico, ma la resa è davvero notevole.

Il disco prosegue con “Albergo a ore” (in francese interpretata da Edith Piaf) qui nella versione di Herbert Pagani, straordinaria figura di artista esule capace di conquistare più paesi con la forza del proprio talento. Seguita da “Lo straniero”, successo (anche questo in italiano) di un altro outsider della canzone, Georges Moustaki. Due artisti nati in Africa (Pagani a Tripoli, Moustaki ad Alessandria d’Egitto), d’origine diversa (il primo italiana, il secondo greca nonostante fossero entrambi ebrei), infine divenuti a tutti gli effetti cantanti francesi.

Questo il cuore del disco – che dimostra come Monti non abbia scelto le canzoni e i protagonisti a caso. Tra le altre canzoni, tutte rese con sapienza e talento dall’artista milanese, a volte in italiano talora in un uno splendido francese: “Che snob” (da Boris Vian passando per Serge Gaingsbourg), “Canzone dei vecchi amanti” (da Jacques Brel con un pensiero a Bardotti e Battiato), “Bang bang”– sola incursione nel repertorio americano di Sonny & Cher – per ricordare il grande successo della versione italiana di Dalida, stella italo-francese.

Un cenno a parte merita la straordinaria “Chacun de vous est concerné” di Dominique Grange – rubata da De André per farla diventare “La canzone del maggio”. Monti, che ne fa un’interpretazione straordinaria, la introduce e la chiude in milanese e ci spiega, senza troppe parole, il senso profondo della canzone popolare.

Chiude il disco “Il rumore degli stivali”, traduzione italiana del capolavoro di Jean Ferrat: “Le bruit des bottes”. L’invettiva prende le mosse dalla dittatura cilena ma poi racconta tutto l’orrore dei regimi totalitari.

Un grande disco, dunque. Da ascoltare e riascoltare. E sul quale ragionare. Perché la canzone d’autore ha saputo, così come certa letteratura, e forse anche di più, raccontare le contraddizioni del nostro tempo.

Ferdinando Molteni

Il video da vedere: https://www.youtube.com/watch?v=j_7a6QTs5do

Cinquant’anni fa “Radici” di Guccini, capolavoro senza tempo

Mezzo secolo può non essere molto in assoluto, ma per un disco di musica popolare è tantissimo. E resistere per cinque decenni alle mode – del pubblico e della critica – ai revival, al punk, alla dance, al pop elettronico fino ad arrivare al rap e alla trap, è davvero un’impresa straordinaria.

Non sono sicuro che Francesco Guccini, all’epoca trentaduenne, avrebbe scommesso su tanta longevità. Del suo disco, e più in generale del suoo lavoro di autore e cantante.

Invece è successo.

“Radici” forse il suo album più significativo insieme a “Via Paolo Fabbri 43” – è ancora qui. Nei pochi negozi di dischi che sopravvivono ma anche, e soprattutto, sulle piattaforme digitali.

Dentro ci sono una manciata di canzoni: “Radici”, “La locomotiva”, “Piccola città”, “Incontro”, “Canzone dei dodici mesi”, “Canzone della bambina portoghese”, “Il vecchio e il bambino”.

Sette pezzi. Sette capolavori. L’artista in stato di grazia.

Certo, ascoltato oggi il disco un po’ di polvere del tempo la mostra. Ma solo sui suoni, sempre pervicacemente trascurati da Guccini, nonostante la presenza di musicisti e amici come Vince Tempera, Maurizio Vandelli, Ares Tavolazzi.

Tuttavia, nonostante suoni ormai tramontati e approssimativi, la bellezza cristallina delle composizioni resta intatta.

Cinquant’anni fa Guccini scriveva un monumento. E noi siamo ancora qui ad ascoltarlo.

Ferdinando Molteni 

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=BjXjgyYU9eU

 

Tricarico a vent’anni da “Io sono Francesco”. Oggi confesso il mio amore incondizionato e i miei imbarazzi

Oggi mi confesso. E racconto una piccola storia vera.

Vent’anni fa, era il 2002, esce un disco di un certo Tricarico che si chiama semplicemente “Tricarico”. Non so niente di lui. Ma la canzone che comincia a girare nelle radio s’intitola “Io sono Francesco” ed è una delle cose più oneste e crudeli che avessi mai ascoltato. Il pezzo è bellissimo, un pugno nello stomaco, e ogni volta che lo ascolto mi appassiona. Allora come oggi.

Ma sembra una canzone per bambini.

Allora non potevo ascoltare tutti i passaggi in radio. E volevo risentire la canzone. Dovevo lavorare al giornale e non riuscivo a sentire la musica mentre scrivevo. Mi distraeva. E comunque Tricarico non arrivava.

Così, un giorno, mi faccio coraggio e mi avventuro – finito il turno in redazione – verso un negozio di dischi della mia città. Entro. Conosco bene il gestore. Praticamente è il mio pusher musicale. Mi consiglia i dischi che potrebbero piacermi. A volte ci azzecca, altre no. Ma io li compro tutti.

Tuttavia, io sono uno che passa per avere gusti raffinati. Ho visto dal vivo i Clash, i Ramones, i Police. Ho una reputazione.

Quel giorno, dunque, non ho cuore di chiedere semplicemente: “Ce l’hai il disco di Tricarico?”.

Lo dico, ma aggiungo: “Sai, piace tanto ai miei figli”.

Ero imbarazzato da quella passione inconfessabile. E i miei figli non c’entravano niente.

In ogni caso, come un carbonaro, compro il disco, lo infilo nella sacca che portavo allora, e vado a casa. Rasente i muri, nel buio della sera. Poi, dopo cena, lo ascolto, sdraiato sul parquet, con le cuffie. Tanto nessuno mi sente.

E scopro un mondo. Il mondo di Tricarico. Lo ascolto e lo riascolto. E lo faccio ancora adesso.

Quel disco di venti anni fa mi appare oggi come un capolavoro senza pari. Racconta storie, ma soprattutto un modo di vivere e vedere la vita, che Tricarico utilizzerà poi  in tutta la sua produzione.

Dentro ci sono canzoni di bellezza struggente e inarrivabile.

Tutte.

Ma se devo pescare qualcosa dal mazzo, per convincere gli scettici, andrei su “Musica”.

 

La verità è che l’amore mi ha bruciato

quand’ero piccolo l’amore mi ha scottato

e me ne stavo seduto sul mio prato a guardare le stelle nel cielo

la verità è che l’amore mi ha bruciato

quand’ero piccolo l’amore mi ha scottato.

E ora sono seduto sul mio prato a guardare una rosa che cresce.

 

E, ancora, “Gioia”, una delle cose più belle mai scritte in Italia da un autore di canzoni.

 

Gioia per mio fratello

Gioia per tutti gli alberi

Gioia per l’acqua del mare

Gioia per tutti i ragazzi
Gioia per le vacanze
Gioia per le mie zie.

E che tutti i giorni
si vedano negli occhi
e negli occhi i colori
i colori sono fatti con la luce
chiudo gli occhi
apro gli occhi
oggi è giugno e c’è il sole.

Potrei continuare all’infinito a parlare di questo disco e di quanto Tricarico ha fatto, di bellissimo, anche dopo.

Perché – e qui finisce la confessione – quando sono giù, quando vedo tutto nero, cosa che mi capita spesso, è quasi sempre lui la cura. Con quel disco incredibile e con due canzoni piuttosto recenti: “Brillerà” e “Abbracciami forte”.

In ogni caso, quest’anno, sono vent’anni da una delle perle più preziose della canzone italiana: il primo disco di Tricarico.

Ferdinando Molteni

La canzone da sentire: https://www.youtube.com/watch?v=EPRwo0OMbQ8